/ Maria D’Anna guarda all'arte come spazio aperto alla sperimentazione, spaziando dalla pittura all'installazione, al video. Nella sua pratica pittorica attua una riduzione analitica del linguaggio mediante velature ed effetti materici giungendo a configurare una dimensione pittorica differente, non più tesa alla mera riproduzione del reale ma alla riflessione su se stessa. L'attenzione alla forma e ai materiali alimentano la dimensione lirica dello spazio pittorico mentre il colore, diradato, consunto, si dispiega in geometrie astratte ma mobili, quasi liquide.
/ Carmelo Cipriani
/ In Maria D’Anna l’opera è costituzione materiata del simbolico, come incisione e velazione del segno-immagine che infigura un ‘sentimento’ trasmutativo della pittura, verso il riannodarsi con l’anima della terra. Graffito di un segnale che nella sua iconica definizione è come un sigillum accecante di luce trasparente dari-velata ferita. Le garze che avvolgono le tele-supporti come trasparenti sudari, sui quali non s’imprime alcuna impronta né di cose né di corpi, sono evocazioni del corpo sanguinante, come a ‘rappresentarne’ l’inestricabile legame, trascendente eppur reale, con la ‘mater materia’ della physis. Nel dittico esposto, lo schema di spiga di grano, emblema universale del nutrimento umano, inciso su fondo di lamine d’oro, si affianca alla tela ‘bendata’ di rosso, come di una reliquia sacrificale. L’opera è un segno di promessa e di pericolo, voce di una legenda del destino controverso della terra. Come le icone antiche, l’arte è annuncio dell’originante ‘sacro’ invisibile e dell’immanenza naturalistica della vita umana.
/ Franco Cipriano
/ Maria D’Anna lavora sulla estensione dematerializzata delle idee assolute, come se proiettasse l’essenza stessa delle cose sulla parete in fondo alla caverna di Platone; ombre di oggetti assiomatici eppure assolutamente presenti nella visione del mondo contemporaneo laddove le nuove forme del reale sono assolutamente indistinguibili dalla fisicità stessa dell’oggetto. Nel costruire, però, le sue immagini e/o opere, Maria D’Anna non compie affatto un’opera di duplicazione della fisicità del reale, piuttosto lo estende su un livello liquido ed instabile della percezione laddove è l’entropia che ne determina il movimento piuttosto che la calcolata rappresentazione dell’opera. L’artista estende, in questo modo, la dimensionalità dell’opera deprivandola dell’immobilità percettiva e facendola diventare mutogena, nel tempo.
/ Massimo Sgroi
/ La nostra vita ferve ma c’è sempre un’ombra che l’accompagna. Maria D’Anna mette in scena questa opacità, questo ritorno dell’uguale. Dipingere per lei è difendere la solitudine in cui si giace, è un’azione che nasce da un isolamento affettivo, ma dall’isolamento comunica il suo segreto. Offrire il proprio segreto alla vista è chiamare gli altri a guardarsi, chiamare chi guarda a ripercorrere la via da cui è giunta la voce. Quale segreto? Il segreto del tempo. Le forme cui lei dà vita non sono il punto di arrivo di una storia, né il suo inizio. Niente incombe, niente avverrà. Eppure queste forme sembrano lì per dissolversi tra le cose. Sono lì a dire che non hanno prevalenza su niente, che il mondo non giace sotto di loro, che non c’è nessun dominio, nessun’azione, nessuna volontà di potenza, nessuna volontà di presenza. Solo sensi, che si distendono tra le cose in un tutt’uno, e rendono le sue opere pansensuali, meglio transensuali. /
/ Paolino Cantalupo